Presentazione di Giancarlo Forestieri al volume di Alfred Rappaport
Il tema della miopia decisionale[1] non è nuovo. E’ presente nella economia classica e viene poi ripreso da Keynes che ne evidenzia i pericoli sotto forma di erosione della fiducia e di ostacolo per il buon funzionamento dell’economia. Le evidenze empiriche sono tuttavia più recenti. A partire dagli anni settanta, si trovano riscontri delle decisioni di investimento delle imprese fatte a tassi di attualizzazione ben al di sopra del costo del capitale e, quindi, destinate a sovra-pesare i risultati a breve termine e a svantaggiare gli investimenti a lungo termine. Nel decennio successivo cominciano ad emergere i puzzle della finanza empirica, cioè i divari tra l’osservazione dei fatti e quanto prescritto dalla teoria dell’efficienza dei mercati; da questo punto di vista, la preferenza eccessiva per il breve termine diventa una delle possibili interpretazioni dei divari stessi.
Gli anni ottanta vedono comunque una intensificazione delle distorsioni. E’ in quegli anni che si sviluppa una prima grande ondata di operazioni di LBO (Leveraged Buyout), cioè di acquisizioni basate sul debito, giustificate essenzialmente da ragioni di ingegneria finanziaria, piuttosto che per scelte industriali. Una delle reazioni naturali del management delle società potenziali target al rischio di essere sotto attacco è quella di svuotare la società stessa di ogni ‘riserva’ di creazione di valore. Quindi: anticipazione per quanto possibile della maturazione dei profitti, ipoteca dei cash-flow futuri attraverso l’aumento dell’indebitamento e riduzione della liquidità disponibile.[2] Nell’insieme, tutto questo corrisponde al progressivo accorciamento dell’orizzonte di tempo delle scelte del management. Non a caso, proprio in quegli anni, si sviluppa –soprattutto in ambiente accademico- la corrente di pensiero che vede nella miopia decisionale la perdita di competitività degli Stati Uniti nei confronti di Giappone e Germania, cioè delle economie aperte ad un modello di corporate governance meno esposto alle pressioni del breve termine. [3]
Nell’ambiente professionale, la consapevolezza del problema è presente in modo sempre più evidente, come evidenziato da questa posizione decisa: “l’ossessione per i risultati a breve termine da parte di investitori, gestori di portafogli e management delle società porta alla conseguenza non voluta di distruggere valore a lungo termine, limitare l’efficienza dei mercati, ridurre il ritorno degli investimenti e ostacolare gli sforzi per rafforzare la governance delle società”.[4]
In chiave temporale, l’osservazione importante da fare è che la tendenza verso la miopia decisionale sembra accelerare ulteriormente nel periodo più recente. Una verifica empirica del fenomeno, condotta su dati del caso inglese[5], ha messo in evidenza: 1) la conferma dell’esistenza di un errore di valutazione (sottovalutazione) dei prezzi azionari rispetto a quanto atteso in base alle ipotesi di efficienza dei mercati; 2) su un arco di tempo ventennale (1985-2004), il fatto che 13 dei 20 anni del periodo in esame presentano sottovalutazione; di questi 13 casi, 9 sono concentrati nell’ultimo decennio.
La distorsione della preferenza per il breve termine si accentua quindi, fino ad apparire una costante del comportamento del mercato azionario. A questo dato di ricerca, si aggiunge l’osservazione degli eccessi di cattiva gestione e di inefficienza che hanno caratterizzato in modo pervasivo le crisi finanziarie più recenti, soprattutto quella che tuttora attanaglia le economie occidentali, scoppiata nel 2008. Gli squilibri di origine e la debolezza dei meccanismi di prevenzione e di controllo sono apparsi fortemente alimentati e condizionati dalla cultura ormai dominante della massimizzazione dei risultati nel breve termine. E’ quello che ha cominciato ad essere definito con il termine di ‘capitalismo trimestrale’, alludendo evidentemente alla cadenza dell’informativa societaria ai mercati, fattore di condizionamento sia del management delle società, sia delle scelte degli investitori istituzionali.
Questo è il contesto in cui si inserisce il libro di Alfred Rappaport. Dunque, si tratta di un lavoro che affronta un tema strettamente connesso al funzionamento dei meccanismi di base dell’economia di mercato: quelli del governo delle grandi società di capitali e del ruolo dei mercati finanziari, in particolare di quello azionario, nell’allocazione del capitale. La sua straordinaria attualità sta nel fatto che il tema è al centro del dibattito, non solo accademico, ma soprattutto politico ed istituzionale, per la consapevolezza sempre più diffusa che i fattori di malfunzionamento sono divenuti insopportabili. Al di la là delle evidenze empiriche cui si è fatto cenno sopra, è chiara la convinzione che la crescente instabilità economica e finanziaria che l’economia mondiale sta attraversando sia in qualche misura alimentata anche dalla miopia decisionale. Il punto di osservazione di Rappaport è quello del mercato americano ma, come si è avuto modo di ricordare, il fenomeno è globale. Nelle considerazioni che seguono, i commenti saranno incentrati sull’Europa e sull’Italia per evidenziare qualche specificità nella manifestazione del problema, ma soprattutto nelle prospettive di riforma.
Si è ricordato sopra come le manifestazioni di miopia decisionale abbiano origini molto lontane nel tempo e questo non è affatto sorprendente. Per molti aspetti, la tendenza a focalizzare il breve termine è innata nelle nostre stesse caratteristiche biologiche; per altri aspetti, viceversa, ci sono le regole istituzionali e di comportamento che possono favorire la tendenza. Nella parte introduttiva del libro, lo stesso Rappaport sottolinea come le radici del problema siano da ricercare nella trasformazione del modello di capitalismo: da quello primitivo, cosiddetto ‘imprenditoriale’, basato sulla sovrapposizione tra proprietà e gestione, a quello moderno basato sulla articolazione e sulla complessità delle strutture societarie e sulla progressiva maggiore distanza tra la proprietà e responsabilità gestionale. Rappaport si riferisce a questa trasformazione con il termine agency capitalism, quindi un sistema in cui gli interessi della proprietà da fare valere nei confronti del management sono delegati e dispersi. Infatti, dalla classica separazione tra proprietà (azionisti) e controllo (management), con i relativi problemi di agenzia (costi di informazione e di disciplina), rappresentata da Berle e Means nel 1932[6], si passa ad un sistema più articolato, centrato sulla formula proprietaria degli investitori istituzionali. La catena ‘proprietà-controllo’ si allunga: dal risparmiatore agli investitori istituzionali; da questi ultimi ai gestori di portafoglio; dai gestori al management delle società. Ognuno di questi passaggi ha i suoi problemi di agenzia e il rapporto tra i soggetti finali della catena, da una parte il risparmiatore (detentore del capitale) e dall’altra il management delle società (il decisore dell’impiego del capitale), si allunga e si diluisce. La miopia decisionale si radica in ognuno dei passaggi di questa catena.
Per certi aspetti, ciò è del tutto razionale, considerando che tutti gli incentivi giocano i questa direzione: dalla ricerca di reputazione e di stabilità da parte del management, alle formule di remunerazione basate sulle performance a breve. Si consolida così sempre più un sistema in cui gli investitori istituzionali hanno bisogno di buone performance a breve per non essere colpiti dai riscatti dei sottoscrittori; i gestori sono a loro volta pressati ad adottare strategie sempre più orientate al trading e alla rotazione dei portafogli; a questo punto il management delle società deve soddisfare le attese del mercato sui risultati trimestrali per non essere escluso dai portafogli istituzionali.
La miopia decisionale è considerata, con una opinione largamente diffusa, un fattore negativo della stabilità delle imprese e della efficienza dei mercati finanziari. Rappaport ne parla come di una ‘forza distruttiva’. Come si giustifica questa visione? La prima considerazione è che la concentrazione sui risultati a breve comporta una gerarchia di scelte strategiche in cui vengono messe in secondo piano quelle destinate a produrre valore nel medio-lungo termine, quelle riguardanti la ricerca e sviluppo , ad esempio. Una delle conseguenze è l’eccessivo focus sullo sfruttamento dei business in essere, trascurando lo sviluppo di quelli nuovi che devono assicurare la sostenibilità delle performance nel tempo. Un secondo punto riguarda la spinta verso condotte gestionali che incorporano rischi eccessivi. Un altro punto ancora è dato dalla ricerca di risultati economici immediati attraverso la forzatura dei principi contabili: anticipazione dei ricavi e rinvio dei costi.
Sebbene largamente diffusa, questa visione non è unanime. Tra i diversi argomenti a favore, se ne possono ricordare un paio. Innanzitutto, ci si deve domandare se l’ottica del breve termine non abbia anche elementi positivi. Se prendiamo il caso generale delle operazioni di take-over, in effetti siamo di fronte a un meccanismo essenziale della disciplina del mercato verso il management delle società. Insomma, la riallocazione proprietaria e manageriale verso soggetti più efficienti è una delle regole fisiologiche del buon funzionamento dell’economia di mercato. Certamente, c’è un limite oltre il quale la spinta verso risultati di breve, non sostenibili, diventa patologica. Molte operazioni di take-over tramite LBO nell’ultimo decennio lo hanno evidenziato.[7] Un secondo argomento è quello delle strategie degli investitori istituzionali. Uscire dalla trappola della miopia vuol dire necessariamente adottare politiche di investimento con holding period pluriennale? Evidentemente no; anche una componente di trading può essere coerente con i target di performance di investitori istituzionali, anche di quelli con passività a medio-lungo termine come i fondi pensione.
Un punto importante da osservare in proposito è che non necessariamente lo spostamento della proprietà verso gli investitori istituzionali ostacola l’investimento a lungo termine delle imprese. Alcune evidenze empiriche indicano in effetti la presenza di una relazione positiva tra quota proprietaria degli investitori istituzionali e intensità della ricerca e sviluppo, espressa attraverso il numero di brevetti.[8] La spiegazione del risultato considera la possibilità che gli investitori siano in grado di produrre informazione, riducendo così l’asimmetria tra azionisti e management. In questo modo, non solo possano selezionare in modo più appropriato le società in cui investire, ma in più, possano sviluppare un coinvolgimento che può favorire la propensione del management per gli investimenti a lungo termine e quindi per l’innovazione. E’ un riferimento agli ‘investitori attivi’, cioè quelli che ricercano coinvolgimento e stabilità nelle partecipazioni societarie e arrivano, eventualmente, anche ad influenzare la condotta societaria. E questo non è certamente generalizzabile alla platea degli investitori istituzionali.[9]
Rafforzare l’orientamento al lungo termine è tuttavia una condizione per potere prefigurare un modello di impresa più sostenibile, in grado di svolgere una funzione positiva in un processo di sviluppo dell’economia equilibrato e stabile. E’ certo che introdurre la dimensione del lungo termine nel modello attuale di corporate governance e nel funzionamento dei mercati finanziari è molto complicato. In un certo senso, l’ottica di breve è intrinseca nel modo di funzionare del mercato ed è difficile di correggerla attraverso interventi parziali. Management societario, investitori istituzionali, gestori, singoli investitori sono ostaggi del gioco a breve e, anche se non lo preferiscono, sono costretti ad accettarlo. Questo è appunto il tema della seconda parte del libro di Rappaport.
Attraverso quali interventi può essere eliminata, o quantomeno attenuata, la miopia decisionale?
L’analisi di Rappaport parte dalla necessità di riformare drasticamente il sistema di remunerazione dei vertici aziendali, gravemente deformato verso la parte variabile (stock options e bonus) e rapportato a misure di performance che favoriscono l’assunzione di rischio e l’orientamento a breve termine. Il suo contributo, in questo caso, è nella rivisitazione dei sistemi di incentivo in essere, dimostratisi fallimentari, alla ricerca del ridisegno più opportuno per poterne potenziare la funzionalità verso la creazione di valore a lungo termine; quindi, in modo coerente con l’idea di sviluppo sostenibile e di allineamento stabile degli interessi tra management e azionisti. La parte successiva dell’analisi si basa sulla premessa che la sola revisione del sistema di incentivi di remunerazione è necessaria ma non sufficiente e riequilibrare la corporate governance delle società. La trasformazione comporta un vero e proprio passaggio culturale che coinvolge tutta la società, dal consiglio di amministrazione, ai vertici aziendali, al personale delle unità centrali e periferiche. In questa direzione, l’autore sviluppa una serie articolata di idee di cambiamento sul piano organizzativo, operativo e comportamentale, destinate ad agire in una sorta di circolo virtuoso con gli incentivi remunerativi. Rientra in questa visione allargata dei cambiamenti necessari anche la revisione dei principi contabili e delle finalità informative dei bilanci societari.
Da ultimo, tra gli interventi necessari per limitare la miopia decisionale dei mercati, vi sono quelli riguardanti il settore degli investitori istituzionali. La contraddizione di fondo che si sviluppa è tra i gestori (cioè coloro che devono soddisfare gli interessi degli investitori) e il business dell’investimento istituzionale, cioè la proprietà delle società di gestione di fondi comuni, di fondi pensione e così via. Mentre i gestori sono chiamati a massimizzare i rendimenti degli investitori, influenzati dall’allungarsi delle aspettative di vita, le società di gestione perseguono obiettivi di breve periodo. Il comportamento dei gestori è influenzato dai criteri di calcolo delle commissioni e da come sono misurate le performance dei fondi. L’enfasi eccessiva sulle performance basate sul patrimonio gestito invece che sulle performance, la scelta di benchmark non appropriati per misurare la qualità dei risultati, la definizione di periodi di riferimento delle performance troppo brevi sono alcune delle distorsioni rilevate a cui porre rimedio per riequilibrare il mercato nell’orizzonte temporale delle scelte.
I problemi che Rappaport analizza con riferimento al mercato americano sono ugualmente diffusi in Europa? Il caso europeo è articolato in una pluralità di regole nazionali e di specifiche situazioni di mercato. Tuttavia, recentemente, la Commissione Europea ha lanciato una iniziativa rivolta al rafforzamento degli standard di corporate governance all’interno del mercato unico; essa prende le mosse dalla pubblicazione, ad aprile 2011, di un documento di consultazione finalizzato a raccogliere valutazioni sulla efficacia delle regole attualmente in vigore.[10] Il documento parte dal riconoscimento che le regole in vigore, leggi e codici di autodisciplina, di fronte alle manifestazioni della crisi finanziaria, si sono rivelati del tutto inadeguati. Tra le ragioni richiamate c’è proprio il fatto non hanno impedito la tendenza verso un eccesso di miopia decisionale sia nelle società che nei mercati. L’approccio di indagine della Commissione è quello di sottoporre innanzitutto a consultazione una serie di ipotesi di ridisegno del ruolo e del funzionamento dei consigli di amministrazione: dalle regole di composizione, alla valutazione delle attività svolte, alle politiche di remunerazione, ai presidi per la tutela dei rischi. Una seconda parte del problema viene individuato nelle carenze del ruolo degli azionisti, in quanto guidati prevalentemente da visione di breve termine e da mancanza di coinvolgimento nel monitoraggio del management. Il documento di consultazione solleva il problema della presenza di una massa critica di azionisti disposti ad accettare un coinvolgimento attivo e a rappresentare l’interesse per obiettivi di performance sostenibili e a lungo termine. Prefigura a questo fine anche la possibilità di disegnare nuove regole di tutela degli interessi delle minoranze.
La sensibilità verso questi temi è largamente diffusa in Europa, per quanto non in modo uniforme. Il caso del Regno Unito è certamente tra quelli più sensibili e ciò per diverse ragioni. In estrema sintesi, si può dire che le regole societarie e quelle di funzionamento del mercato finanziario siano oggetto di una attenzione particolare, come fattore della competitività del paese e della piazza finanziaria di Londra. D’altro canto, c’è da considerare che alcune caratteristiche del mercato dei capitali e del sistema societario inglesi sono proprio tra quelli che accentuano l’esposizione alle criticità della miopia decisionale. In questa direzione, per fare un esempio, agisce il fatto che gli investitori istituzionali, i fondi pensione in particolare, hanno una componente azionaria (più sensibile alla volatilità dei mercati) più alta rispetto a quanto accade, ad esempio, nell’Europa continentale. La reattività a breve delle politiche di investimento è accentuata considerando che i conti dei fondi pensione a valori di mercato devono essere consolidati trimestralmente nei bilanci delle società, alimentando così la pressione per aggiustamenti di portafoglio di breve periodo. In questo contesto non è del tutto sorprendente che proprio il governo inglese abbia avviato, già nel 2010, una consultazione tendente a formare le basi di una possibile riforma in materia di corporate governance e di correzione delle distorsioni a breve termine del mercato dei capitali e a supportare così la competitività del sistema.[11]
Nel caso italiano, le modifiche introdotte nel Testo Unico della Finanza all’inizio del 2011 hanno dato alla CONSOB il potere di regolare i contenuti informativi in materia di remunerazioni delle società quotate, in particolare “le informazioni volte ad evidenziare la coerenza della politica delle remunerazioni con il perseguimento degli interessi a lungo termine della società…”. Passando dal caso generale a quello del settore finanziario, gli interventi correttivi delle regole di corporate governance e di politiche di remunerazione sono stati rapidi, a riconoscimento non solo delle evidenti e gravi carenze emerse con la crisi, ma soprattutto della posizione chiave che le istituzioni finanziarie rivestono per il funzionamento dell’intera economia. Nei principi alla base delle nuove regole, si sottolinea che “i sistemi retributivi non devono essere in contrasto con gli obiettivi e i valori aziendali, le strategie di lungo periodo e le politiche di prudente gestione del rischio della banca [… ] le forme di retribuzione incentivante, basate su strumenti finanziari (es. stock option) o collegate alla performance aziendale, devono […] essere strutturate in modo da evitare il prodursi di incentivi in conflitto con l’interesse della società in un un’ottica di lungo periodo.”[12]
Questi brevi richiami a quanto è accaduto, e sta accadendo, in Europa mettono in evidenza almeno due aspetti importanti. Da un lato, si può capire che il problema della miopia decisionale delle società e dei mercati non è solo del caso americano, o comunque non solo dei contesti di matrice anglosassone; l’esigenza di interventi correttivi è ben presente anche nei paesi continentali, per quanto storicamente meno esposti alla cultura del mercato. Dall’altro lato, si è constatato che la reazione delle autorità pubbliche si è manifestata con qualche segnale significativo. Ciò riflette evidentemente l’importanza che il problema riveste e non solo come fatto tecnico, ma nella prospettiva ben più delicata delle regole di funzionamento della economia di mercato. Nello stesso tempo, c’è da osservare che le azioni intraprese sono rivolte principalmente al tema della politica delle remunerazioni per renderla coerente con una visione di lungo periodo. Altri aspetti rilevanti, in particolare quelli relativi al ruolo degli investitori istituzionali e dei gestori, non sono stati fino ad ora oggetto di pari attenzione. Anche le riflessioni sollecitate dalla lettura del libro di Rappaport possono aiutare ad approfondire questi problemi e i possibili interventi correttivi.
[1] ‘Miopia decisionale’ viene usato per tradurre il termine short-termism che in inglese è utilizzato per indicare la tendenza ad accorciare sempre più l’orizzonte temporale delle decisioni, sia nella condotta delle società, sia nei mercati finanziari.
[2] A. Shivdasani, A Zak, The Return of the Recap: Achieving Private Equity Benefits as a Public Company, Journal of Applied Corporate Finance, Summer 2007.
[3] M. Porter, Capital disadvantage: America’s failing capital investment system, Harvard Business Review, Sept-Oct. 1992.
[4] CFA Institute Center for Financial Market Integrity, Breaking the Short-term Cycle, 2006, p. 4
[5] Andrew Haldane, The Short Long, Bank of England, may 2011.
[6] A. Berle, G. Means, The Modern Corporation and Private Property, Harcurt, Brace &World, 1932
[7] Emblematica a questo proposito è la discussione innescata in Gran Bretagna dalla vicenda dell’acquisizione di Cadbury da parte di Kraft nel 2010. Nelle evidenze ufficiali si parla espressamente di operazione decisa dagli investitori istituzionali per ragioni di profitto a breve termine non nell’interesse della società e dell’economia. Nel dibattito in Parlamento, il Governo condivide le preoccupazioni e invoca una visione a lungo termine condivisa da azionisti e management.
[8] P. Aghion, J. Van Reenen, L. Zingales, Innovation and Institutional Ownership, March 2009
[9] OECD, Promoting longer-term investment by institutional investors: selected issues and policies, February 2011
[10] European Commission, Green Paper. The EU corporate governance frame work, Brussels, 5.4.2011, COM (2011).
[11] BIS Department for Business Innovation & Skills, A Long-term Focus for Corporate Britain, October 2010.
[12] Banca d’Italia, Disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari, 30 marzo 2011. La revisione normativa segue un percorso parallelo per il settore assicurativo; la direttiva europea trova applicazione nel Regolamento ISVAP n. 39/2011 relativo alle Politiche di remunerazione delle imprese di assicurazione, 9 giugno 2011. Per il caso delle società quotate in generale, tra ottobre e novembre 2011, la CONSOB ha sottoposto a consultazione le proposte di riforma del Regolamento emittenti in materia di remunerazione degli amministratori.